
Negli ultimi anni il partenariato fra Emirati Arabi Uniti e Italia è sempre più forte. Quali sono le aree di maggiore condivisione? Come possono consolidarsi i rapporti economici tra i due Paesi? Le recenti elezioni politiche italiane hanno mutato gli equilibri?
Da qualche anno il partenariato bilaterale sta vivendo un notevole salto di qualità in molteplici ambiti che lo hanno reso diffuso, articolato e strategico. Sul piano della cooperazione politica si è ormai consolidata una cadenza semestrale di consultazioni fra i Ministri degli Esteri che, non a caso, ha preso la denominazione di “dialogo strategico”; a livello economico, vale la pena di citare il successo più recente, rappresentato dalle concessioni petrolifere ottenute da ENI – la prima volta nella storia per una società italiana – in due giacimenti off-shore; sul piano culturale, stiamo lavorando instancabilmente per raggiungere due traguardi altrettanto ambiziosi: la prima Scuola Italiana Internazionale ad Abu Dhabi e il primo Istituto Italiano di Cultura nella penisola arabica, che avrà sede anch’esso nella capitale emiratina.
Ci sono tuttavia ulteriori margini ancora ampi di collaborazione in vari settori (dall’intera filiera dell’Oil & Gas, che include petrolchimico e raffinazione, alla green economy; dal bio-medicale/sanitario alle prospettive di EXPO Dubai 2020) che vanno consolidati con il costante rafforzamento della fiducia fra i Governi e le eccellenze economiche dei due paesi, a prescindere dai cambi di maggioranze politiche che riguardano l’Italia. Gli ultimi quattro capi di governo sono stati in visita ufficiale negli EAU e sono certo che anche il prossimo capo di governo non tarderà a riconoscere la valenza prioritaria che questo Paese ha assunto per la nostra proiezione esterna complessiva.
Lo scorso gennaio ad Abu Dhabi si è tenuto il World Future Energy Summit, evento molto atteso dopo l’annuncio di gennaio 2017 del “Piano energetico degli Emirati Arabi 2050”. In un’era che va verso il low-carbon e con il prezzo del petrolio in calo, anche gli Emirati Arabi Uniti studiano vie alternative in chiave di sostenibilità finanziaria ed ambientale. Di fronte a quale scenario ci troveremo tra 10 anni?
Gli EAU possono essere annoverati fra i paesi più sensibili al tema della transizione energetica per una serie di ragioni. In primo luogo, per accentuare la diversificazione del proprio modello economico in modo da tenerlo al riparo dalle periodiche nefaste fluttuazioni del greggio; in secondo luogo, per valorizzare e sfruttare una risorsa come l’energia solare, qui abbondante (per usare un eufemismo)! Infine, per competere efficacemente a livello internazionale e anche in paesi terzi nel settore della gestione delle energie rinnovabili.
Ne consegue una strategia coerente di lungo periodo: ad Abu Dhabi trova sede IRENA (l’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili, presieduta dall’Italia nel corso del 2017), così come proseguono i lavori di ampliamento di Masdar City, la “città ad emissioni zero” alla periferia della capitale, dove è ubicato anche un istituto di ricerca gemellato col MIT di Boston. Dubai ospita a sua volta – e l’Italia ne è parte attiva – la “World Green Economy Organization” (WGEO), piattaforma volta a sostenere utili public private partnership in grado di sviluppare sostenibilità economica ed ambientale. Sempre a Dubai è in costruzione – con la partecipazione di ditte italiane – il più grande parco solare del mondo a sito unico, il Mohammend bin Rashid Al Maktoum Park, che si espande per 77 Km2 e genererà 1.000MW entro il 2020 e 5.000MW entro il 2030. A conclusione di questo imponente progetto, dopo il 2021, la scommessa è di raggiungere la tariffa elettrica più bassa al mondo generata da Concentrated Solar Power (8 centesimi di $ al kilowattora). Obiettivo dichiarato degli EAU è quello di diversificare, entro il 2020, per almeno il 20%, l’attuale composizione del mix energetico attraverso l’impiego di energia rinnovabile (ivi compresa la componente nucleare).
Sempre più italiani lavorano negli Emirati Arabi. Quali sono le principali difficoltà che incontrano?
La comunità italiana residente è enormemente cresciuta negli ultimi anni, arrivando a totalizzare oggi oltre 13.000 unità. Si tratta in massima parte di presenze di alto profilo, professionisti, consulenti legali e finanziari, medici, docenti universitari, attratti dalla vitalità incessante di questa piattaforma. Per loro esistono di certo transizioni congiunturali più o meno favorevoli che ricalcano inevitabilmente l’andamento dell’economia emiratina. Il biennio 2016-17, ad esempio, è stato caratterizzato dal declino del prezzo del petrolio che ha condizionato negativamente il mercato del lavoro degli expat non solo nello specifico ambito energetico, ma in un ampio “indotto”, generando una riduzione delle tradizionali opportunità qui presenti. Pertanto, come accade in ogni altro paese, il livello di soddisfazione degli operatori economici e dei professionisti è funzione diretta del ciclo economico in atto.
Cosa consiglierebbe ai nostri laureati che intendono fare business negli Emirati Arabi?
Questo è un mercato di grandi opportunità, ma non privo di rischi e con aspettative di rientro dell’investimento al momento leggermente differite nel tempo. I miei suggerimenti non si distaccano dunque da quelli che offro alle innumerevoli delegazioni imprenditoriali qui in visita: proporre eccellenza tecnologica ed innovazione all’avanguardia; trovare (e in questa ricerca affidarsi anche all’assistenza istituzionale di Ambasciata, Consolato Generale a Dubai e ICE) un partner interessato a compartecipare attivamente all’investimento; dotarsi di un cash flow che permetta di tamponare le iniziali difficoltà di ingresso nel mercato, continuamente saturo di competitor in arrivo da tutto il mondo; non limitarsi a guardare al mercato locale, ma pensare agli EAU come hub di riesportazione nella regione, sfruttando gli indiscussi vantaggi logistici e infrastrutturali di cui essi sono dotati; intercettare la domanda di diversificazione economica che proviene da queste Autorità, con proposte relative ai settori qui avvertiti come prioritari (energie rinnovabili; healthcare; trasporti e logistica “intelligente”; filiera Oil&Gas, adesso con un accento speciale nei servizi relativi ai segmenti del midstream e del downstream).
Attualmente qual è la condizione delle donne negli Emirati Arabi? Come vengono percepite dalla comunità araba le donne italiane residenti negli Emirati?
L’attuale Esecutivo emiratino ha perseguito significativamente l’obiettivo della parità di genere nella sua composizione, con 9 donne Ministro (su un totale di 32 membri) a capo di alcuni dicasteri importanti (Cultura, Cooperazione Internazionale, Pubblica Istruzione), altri dal sapore futuristico (Scienze Avanzate; Sicurezza Alimentare), altri ancora molto originali (due giovani donne emiratine dirigono il Ministero della Felicità e quello della Gioventù). A guidare il Consiglio Nazionale Federale c’è Amal Al Qubaisi, prima donna a ricoprire nell’area mediorientale la carica di Speaker di un’Assemblea parlamentare. Non credo di dover aggiungere altro, se non il fatto che – accogliendo questo paese oltre 140 nazionalità diverse con uno spirito di apertura, tolleranza e dialogo – non ravvedo particolari percezioni nei confronti delle donne italiane qui residenti, che svolgono peraltro anche ruoli professionali di alto livello.
La sua giornata tipo?
L’attività diplomatica in questa sede è caratterizzata da una certa intensità, che tende a superare di fatto le tradizionali paratìe fra impegni lavorativi e dimensione privata. La mia giornata si snoda pertanto attraverso un alternarsi talvolta vorticoso di momenti più strettamente professionali (incontri con Autorità locali; assistenza a delegazioni istituzionali o imprenditoriali italiane; riunioni di coordinamento con i colleghi europei; organizzazione di eventi; analisi di dossier e elaborazione di rapporti per la capitale) e altre occasioni apparentemente di natura più “sociale” (ricevimenti, inaugurazioni di realtà italiane nei settori più disparati, incontri con i vari segmenti della comunità di connazionali residenti), ma che finiscono spesso per confondersi con la tipologia precedente.
Alcune costanti che cerco di concedermi sono, al mattino presto, la lettura della stampa estera e di alcuni interessanti profili Twitter di esperti di geopolitica mediorientale; poi il pranzo in Residenza con mia moglie, e negli spazi liberi il tentativo arduo di coltivare le mie passioni: lettura, cinema e musica. Nel fine settimana, quando il clima lo consente, non rinunciamo ad una puntata nella splendida spiaggia di Saadyat Island, dove è possibile almeno carezzare la memoria del nostro impareggiabile Mediterraneo.
Qual è l’aspetto che preferisce del suo lavoro?
La sua infinita varietà e l’umiltà che deriva dal calarsi ogni volta in contesti culturali e geopolitici molto diversi tra loro e coglierne la reale essenza. Significa, passando da un incarico all’altro, riuscire a mettersi sempre in gioco con nuovi stimoli, mantenendo intatta la necessità di essere sempre esigenti nei propri confronti.
Un ricordo degli anni trascorsi alla LUISS.
Non so quanto sia politically correct, ma il ricordo più esaltante risale alla primavera 1987 (un anno prima della mia laurea), quando l’allora Consiglio di Amministrazione decise la “temporanea sospensione” delle iscrizioni a Scienze Politiche, la mia facoltà, per una pausa di riflessione legata al l’aver riscontrato tassi di ingresso nel mondo del lavoro inferiori a quelli dei laureati di Economia e Commercio e di Giurisprudenza. Entrammo in sciopero, i giornali dell’epoca titolarono “Il 68 dei Manager”, organizzammo un’Assemblea permanente in Aula Magna dove ogni giorno intervenivano diplomatici, funzionari parlamentari, giornalisti, responsabili delle risorse umane di grandi aziende, per spiegare i vantaggi di una Laurea in Scienze Politiche. Un mese dopo, la misura venne ritirata e le iscrizioni per l’anno successivo riaperte. A distanza di tanti anni, quando incontro un laureato LUISS in Scienze Politiche, non riesco ad evitare di sentirmi parte in causa.
Quale valore aggiunto ritiene le abbia dato il frequentare la LUISS?
Innanzitutto, la lezione di grandi maestri: personalità come Rosario Romeo, Antonio Marzano, Paolo Ungari, Pietro Pastorelli e, nel corso di preparazione al concorso diplomatico, Antonio Martino e Luigi Ferrari-Bravo, straordinarie guide e punti di riferimento, nella vita prima ancora che nelle rispettive discipline, che rimangono fortemente alla base delle mie scelte post-universitarie.
Accanto a loro, il “metodo LUISS”, in cui ai tradizionali insegnamenti accademici si alternavano analisi molto più operative e utili, condotte “sul terreno”, che hanno orientato felicemente il mio pragmatismo anche nella professione, ponendomi sempre l’urgenza di finalizzare in un preciso contesto una conoscenza teorica altrimenti sterile.
Infine, il valore inestimabile del networking. Quasi mi commuovo talvolta a constatare come i miei splendidi colleghi di allora, per la maggior parte fuori sede come me, oggi siedano a capo di Uffici legislativi di Ministeri, siano ai vertici di grandi Amministrazioni dello Stato, dirigano aziende di successo, in una parola siano davvero divenuti “classe dirigente”, eppure conservino lo spirito “pioniere” e la stessa passione di quei tempi che ci spingeva a dare il meglio, lontano dalle nostre famiglie che in noi avevano creduto.
Quanto è soddisfatto dei traguardi raggiunti? Quali sono i suoi prossimi obbiettivi?
Rappresentare l’Italia all’estero, in un paese interessante come questo, è già un grande traguardo, ma soprattutto un privilegio e una responsabilità. Ed è un traguardo il cui merito va in parte ascritto anche agli anni di formazione universitaria. L’obiettivo è intanto continuare a fare bene ogni giorno e sapersi meritare eventuali futuri incarichi in altri paesi altrettanto importanti per la promozione dell’interesse nazionale.
Come immagina il futuro? Quale sarà l’evoluzione della situazione geopolitica a livello mondiale?
Quando un diplomatico si immagina davanti ad una palla di vetro, corre il rischio di deragliare o di raccontare banalità. Mi limito a dire che la diplomazia – pur in una società del tutto interconnessa e digitale – rimarrà cruciale per riuscire ad “accordare il mondo” (titolo di un bellissimo libro del mai abbastanza compianto Ambasciatore Boris Biancheri). Per comporre i complessi contrasti della nostra epoca, destinati probabilmente ad acuirsi ancora – le dimensioni assunte dai fenomeni migratori, le diseguaglianze sociali generate all’interno dei singoli paesi protagonisti della globalizzazione, la diffusione dell’estremismo violento a sfondo religioso, le profonde divisioni etniche e settarie – ci sarà bisogno di leader responsabili, disponibili al dialogo e al compromesso, convinti che le sfide comuni per il pianeta (cambiamento climatico, contrasto al terrorismo internazionale, sicurezza alimentare) possono vincersi solo insieme e mai più da soli, e consapevoli del ruolo insostituibile della diplomazia in un simile delicato contesto globale.
Chiara Rinaldi, giornalista Camera dei Deputati