24 Febbraio 2022

Intervista a Roberto D’Alimonte: La rielezione del Presidente della Repubblica Italiana

La rielezione del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, seconda ipotesi nella storia repubblicana di conferimento alla medesima, autorevole personalità di un ulteriore mandato, è stata percepita da parte della stampa italiana e internazionale come segnale di mantenimento dello status quo; viceversa, la pubblica opinione è parsa per lo più rassicurata, percependo la nomina come un segnale di stabilità a fronte di un panorama sociale ed economico ancora dilaniato dalla crisi pandemica.

Si ha in questa sede la possibilità di confrontarsi direttamente con Roberto D’Alimonte, esperto politologo e Professore di “Sistema politico italiano” presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Luiss Guido Carli di Roma.

 

Professor D’Alimonte, grazie di aver accettato l’invito alla riflessione. Che cosa ne pensa, in generale, della ri-elezione del Presidente della Repubblica e, in particolare, ritiene che essa sia stata opportuna o necessaria? La politica ha preso una decisione precisa e consapevole, o si è trattato piuttosto di un errore di sistema causato dai numerosi stalli degli esiti deliberativi?

Saluto e ringrazio lei e la redazione per l’occasione di confronto. Rispondo affermando che, per me, la rielezione costituisce un esito positivo, e ciò non era affatto scontato. È stato infatti l’esito di un processo caratterizzato da numerose ambiguità, poiché l’elezione è intrecciata con altre questioni: non a caso, nel linguaggio accademico e politologico, siamo soliti parlare di “giochi intrecciati”.

Si esaminino alcune di tali questioni intrecciate: il rischio di elezioni anticipate, anzitutto. Sulla scelta di Mario Draghi incombeva il veto di alcuni partiti, veto che avrebbe accresciuto notevolmente il rischio.

In secondo luogo, sono da considerare gli equilibri interni dei partiti: i problemi di Salvini con la Lega e il rapporto con Berlusconi da una parte e con la Meloni dall’altra. È tuttora attuale il problema di una riforma elettorale.

E poi vi è il tema delle alleanze, proprio in vista della prossima elezione. Come accennato, è tutto intrecciato, per tale motivo alludevo alla teoria dei giochi intrecciati. La decisione in commento è una questione che incide su altrettante questioni, che interessano molto ai partiti. Lo stallo di cui si è parlato è proprio emerso da questo intreccio, che i partiti, tuttavia, non sono riusciti ancora a sciogliere.

Tuttavia, lo status quo è del tutto positivo. Come è positivo anche il bisogno di avere delle àncore, per gestire situazioni difficili. Come noto, la Banca centrale europea ha rallentato l’acquisto dei titoli; lo spread è salito. In questo quadro, la presenza di Sergio Mattarella rappresenta dunque un’àncora, quanto e anche più di Draghi. Tutto ciò è positivo, perché senza ombra di dubbio Mattarella non farà come Napolitano prima di lui: egli intende rimanere al Quirinale per l’intero mandato.

Questi sono i punti di riferimento stabili, cui è possibile affidarsi.

 

Come accennato, il processo costituzionale in oggetto (l’elezione) è circondato da una diffusa insofferenza, ovviamente legata alla globalità dei fattori causati dalla pandemia da Covid-19. La vita economica e quella culturale manifestano sintomi sempre più bizzarri: gli studiosi, gli scrittori, gli intellettuali e i principali attori della vita pubblica, spesso, non sanno come interpretare tali segnali. Qual è la sua opinione a proposito del futuro politico-culturale dell’Italia, che ovviamente non può essere disgiunto dall’alone tematico “Europa”?

Il nostro futuro è legato all’Europa: lo sottolineo.

Avendo parlato di ancore di salvataggio, l’Europa ne rappresenta una particolarmente importante, ed è stata discussa, assieme all’Euro, da partiti oggi in maggioranza. Quanto è cambiato il mondo, potremmo dire.

Nel 2021, con molta generosità, l’Italia è stata definita “Paese dell’anno”. E, non a caso, noi siamo in una situazione di stabilità, assieme (e grazie) a Mattarella e Draghi. Tuttavia, le basi rimangono fragili a livello sociale e tutti e due gli esponenti istituzionali citati nascondono questo problema di fondo. La verità è che abbiamo partiti medio-piccoli, forse anche troppi partiti. Gli elettori sono disorientati e hanno perso tutti i punti di riferimento: è un elettorato liquido. È questa instabilità di fondo a essere preoccupante, specialmente quando Draghi non ci sarà più. La fiducia nella classe politica è bassa: ciò non è sano, perché tale fiducia è fondamentale nella democrazia. Mattarella e Draghi godono di ampia fiducia, è vero, ma se non si ricostruisce la fiducia dei cittadini nei confronti della classe politica, nelle élites e nella classe dirigente, noi rimarremo sempre fragili.

Mi sento di dire che va ripreso il tema delle riforme istituzionali, per porre le basi migliori per una vera governance. La questione del Senato come Camera delle Regioni, e ancora: bisogna approfittare per mettere a posto lo stesso rapporto tra Stato e le Regioni. Vi dev’essere un modello di autonomia che rispetti le tante diversità del Paese, senza danneggiare le regioni meno avvantaggiate o meno ricche. Vanno riviste la forma di governo e la legge elettorale. Riprendendo le fila dei precedenti discorsi, Sindaci e cittadini devono poter scegliere il Presidente della Repubblica.

Infine, un punto importante sul quale torneremo in seguito: l’educazione alla democrazia. È fondamentale. Bisogna educare alla democrazia. Incombono le elezioni del 2023, ma il futuro è incerto: con quale legge elettorale si verificheranno, quali saranno le arene, quale sarà l’esito? Bisogna rimettere mano alle riforme istituzionali, lo ribadisco.

 

Forse casualmente, in questo periodo mi è capitato di rileggere la saggistica di Breat Easton Ellis (Bianco, Einaudi, 2019) e di Jonathan Franzen, a partire proprio dal noto Zona disagio (Einaudi, 2006), sino al recente e intenso La fine della fine del mondo (Einaudi, 2019). Spesso parlo con i miei studenti o i lettori di questo senso di mistico dolore, che sembra davvero il preludio a qualcos’altro; la mia dedizione va al rapporto tra il diritto e la cultura contemporanea, ma come ovvio la strada maestra è sempre tracciata dai poteri politici e dagli attori sociali.

Lei, come accademico, scienziato e studioso della politica, come interpreta questo percepibile senso di smarrimento? Ritiene che, malgrado tutto, esso sia in grado di propiziare impeti culturali e creativi apprezzabili, o sia piuttosto l’ouverture di un annichilimento dell’Io pubblico?

Premesso che noi stiamo vivendo in un momento storico straordinario, è anche vero che stiamo attraversando una vera e propria fase di transizione: la presente è una rivoluzione tecnologica, la maggiore nella storia dell’umanità.

Siamo stati testimoni di altri grandi cambiamenti: si pensi soltanto al motore a scoppio, all’invenzione dell’elettricità, eventi che hanno squassato la società dell’epoca. Per quanto riguarda la rivoluzione odierna, essa è soltanto agli stadi iniziali: Internet, i cellulari, il digitale. Tutti questi fenomeni sono solo l’inizio. E infatti le applicazioni dell’intelligenza artificiale hanno incredibilmente scosso le basi della nostra società, oltre che il nostro modo di lavorare, di vivere. Lo smarrimento cui allude lei deriva dall’impreparazione di chi è arrivato, o si è trovato immerso, in tale cambiamento. Gli stessi giovani sono impreparati. L’invenzione epocale di Internet ha cambiato la politica, la cultura, l’informazione, e in tutto questo la scuola e le istituzioni faticano palesemente ad adattarsi. A tutta questa velocità, noi non siamo pronti: perché il cambiamento è veloce e altrettanto profondo, ma a tutti i livelli. Lo sottolineo: impreparati, fatichiamo ad adattarci. Tuttavia, questo quadro comporta grandi opportunità, poiché la scienza senz’altro fornirà vantaggi per tutti.

Ma, come sempre, nelle transizioni si registrano vincenti e perdenti. La creazione di opportunità è speculare alla nascita di rischi in grado di minare le basi dei sistemi democratici. Se la sfiducia, la disaffezione e la rabbia continueranno a crescere, la classe politica e le stesse istituzioni verranno messe seriamente in discussione. È necessario produrre reti adeguate a gestire la rabbia dei perdenti, non solo l’entusiasmo dei vincenti. È la questione dell’educazione alla democrazia: significa comprenderne pregi e limiti.

E lo si fa attraverso una scuola diversa: io ho frequentato il liceo classico e ne sono contento, una scuola meravigliosa. Ma non basta più, non è più adatta. A parte la riforma istituzionale, la più urgente ora è la grande riforma della scuola, che contenga la vera educazione alla democrazia. La si struttura attraverso gli insegnamenti della tecnica, quella necessaria a disconnettere il gap tra la formazione dei giovani e le esigenze dell’economia digitale. Troppi giovani non hanno ancora la preparazione e le skill che il mercato richiede. Le aziende lamentano la mancanza di assunzioni tecniche e i giovani sono disoccupati.

La scuola va riformata, addirittura rovesciata, strutturandola con insegnamenti scientifici e, soprattutto, relativi alle scienze sociali: non è sufficiente l’educazione civica, pur ottima, è necessario insegnare la pratica della democrazia. Serve la cultura empirica, più che la filosofia e le scienze giuridiche: la cultura empirica.

 

Il tema della cultura empirica è anticipatorio, fondamentale: in qualità di testimoni privilegiati avremo parte attiva in questo grande tentativo storico. Grazie, Professore, per le riflessioni illuminanti e virtuose; un sentito ringraziamento anche a Connect per la proficua e unica opportunità di dialogo.

Grazie a voi tutti per la splendida occasione, che ho apprezzato molto.

 

Claudio Mattia Serafin, Docente di Deontologia giuridico-culturale e scrittore