
Si torna a riflettere sul tema del lavoro, il cui corollario naturale è oggi lo svolgimento dello stesso.
Come, dove e quando si lavora, dal momento che sulla necessità del lavoro non vi sono ora né mai vi saranno più dubbi: la cultura dell’impegno e dei risultati civici è innestata con precisione in Costituzione e in tutto il pensiero istituzionale (non solo laico, ma anche religioso). Il problema risiede casomai nel fatto che si avverte un legittimo vacuum quanto agli obiettivi del lavoro svolto, oltre che alle modalità di detto svolgimento. La cornice postmoderna e l’iper-produttività intellettuale, quest’ultima del tutto deprivata di qualsivoglia appiglio teorico, culturale o storico, di certo non migliorano il quadro e vanno a incidere in maniera negativa sul benessere dei lavoratori.
Storicamente, a seguito del cambiamento subìto dall’inconscio collettivo degli ultimi venti anni (rispettivamente, le crisi terroristica, economica, migratoria, pandemica e da ultimo bellica e ambientale), le classi dirigenti e politiche hanno avvertito la necessità di modificare l’assetto professionale del tessuto economico-sociale sottostante, orientando dibattito e formazione nella direzione della responsabilità, della connessione tecnologica, oltre che degli orizzonti forniti dalla sostenibilità e dall’inclusione; nel mentre, la comunicazione istituzionale nazionale ed europea ha registrato il segnale del cambiamento e si è velocemente adeguata. I valori della Governance generale sono cambiati e sono ora la digitalizzazione, l’innovazione, la transizione ecologica, l’inclusione sociale e, infine, la riduzione dei divari territoriali e generazionali.
A proposito di innovazione, durante la fase emergenziale, lo smart working è divenuto strumento ineludibile per impedire l’arresto della macchina pubblico-privata e ha attirato ex post l’attenzione di analisti e studiosi della cultura lavoristica. Ora si è usciti da quella cornice per entrare purtroppo in una dimensione emergenziale più ampia, data da alcuni, gravi fattori: la questione bellica e il caro energia. Il lavoro da remoto ha un potenziale bacino di ben otto milioni di persone (in costante incremento) e le imprese continuano a considerare di tagliare spazi e costi energetici. Dalla fase emergenziale, dunque, si entra nella cultura e nel ragionamento dello smart working, che quindi muove verso obiettivi e piani di lunga durata. Innanzitutto, si affianca all’efficienza dell’azienda il benessere / qualità di vita del lavoratore (specie il giovane lavoratore), che in effetti non è disposto a indietreggiare, dopo la conquista ottenuta. E le aziende, sia pubbliche che private, hanno ridimensionato i loro stessi spazi fisici.
Le criticità ancora esistono:
- Sussiste il fatto che il dipendente deve avere uno spazio esterno all’abitazione, per lavorare; se lo desidera, il lavoratore dovrebbe usufruire dello spazio adibito, che può essere appunto il domicilio, l’HUB, ecc.
- Si deve superare la dilatazione della giornata, che quindi deve mantenere orari lavorativi contenuti, a seguito degli errori commessi durante la fase pandemica (il cd. “mailbombing”, ecc.).
- La patologia delle grandi dimissioni,[1] ovverosia la tendenza dei dipendenti a dimettersi in massa dai luoghi di lavoro, oltre che il fenomeno del cd. “quiet quitting”.[2]
In conclusione, si potrebbe dire che è stato cambiato il nome a fattori senza tempo, che di certo non hanno mutato la loro identità.
Si vedano insieme degli esempi specifici: un sano rapporto con l’ambiente è necessario, ma non sufficiente, ed è anche pericoloso quando sviluppato fino agli eccessi. Basti pensare che la natura è vita, ma è anche finitudine quando quest’ultima si rapporta con l’umano: l’individuo potrebbe infatti interpretare tale muro gnoseologico e comunicativo come sinonimo incombente di fine, o di morte.
La riduzione dei divari, anche, viene presentata come una necessità impellente, ma di fatto ha radici molto antiche, ed è stato uno dei fattori che ha scatenato l’indignazione di numerosi intellettuali. Basti pensare alle teorie di Fourier sulla riorganizzazione razionale della società, sviluppate poi da Dostoevskij in “Memorie dal sottosuolo” (buona l’edizione italiana di Einaudi), la cui prima sezione consiste in un monologo sociale volto a criticare qualsiasi tipo di contrasto attitudinale. L’esistenza di questa grave malattia produce risultati abnormi, tra i quali un’incessante vita “civile” (effimera e improvvisata) in superficie e spinge al contrario il pensiero culturale e ontologico nel cd. sottosuolo. Un vivente, Cormac McCarthy, afferma in “Sunset limited” (edito in Italia da Einaudi) che la verità è una e sana, mentre le false verità sono numerose e conducono inevitabilmente ad altre tappe di un percorso sempre più oscuro e sempre più pericoloso. Viene da chiedersi se non sia il caso di impostare il discorso civile, professionale e familiare secondo una traccia, per così dire, più classica, fatta di equilibrio, lavoro (senz’altro), ma anche un rapporto con la realtà, con il divertimento edificante, con la cultura, specie con la cultura dell’affettività.
Vivere il dibattito oppure studiarlo analiticamente offre al contrario la sensazione di essere molto lontani da qualsiasi soluzione (ne basterebbe una razionale, o addirittura fantasiosa), mentre si è senz’altro vicini a crisi continue, innestate da alcuni elementi: un inconscio collettivo velato, narcisista e oscuro, numerose tendenze culturali tutt’altro che condivisibili e, infine, approssimazione e contingenza.
[1] Si vedano i due aggiornamenti riportati:
https://www.gallup.com/workplace/349484/state-of-the-global-workplace-2022-report.aspx#ite-393245 e https://www.corriere.it/economia/lavoro/22_ottobre_05/grandi-dimissioni-quasi-terzo-lavoratori-pronto-lasciare-report-adecco-7801a076-42f2-11ed-992f-919085eb621d.shtml.
[2] Si legga:
https://www.weforum.org/agenda/2022/09/tiktok-quiet-quitting-explained/.
Claudio Mattia Serafin, Professore universitario.