
Da un piccolo paese del Salento a due passi da Santa Maria di Leuca al fronte ucraino, passando per Roma, Milano e l’Afghanistan. E’ stato lungo e articolato il viaggio di Luciana Coluccello, laurea specialistica alla Luiss in Scienze Politiche, Comunicazione Istituzionale e Politica, per coronare il sogno di diventare una stimata reporter di guerra per primarie testate nazionali. La sua tesi di laurea dal titolo “Perché l’Italia è in Afghanistan?” ha ottenuto un riconoscimento dal Premio Internazionale di Giornalismo Maria Grazia Cutuli, assegnato da Il Corriere della Sera e dalla Fondazione Maria Grazia Cutuli Onlus. Nel 2019, ha vinto la sedicesima edizione del premio “Giornalista di Puglia – Michele Campione”, nella sezione “cronache”, grazie alla sua inchiesta dal titolo “Cocaina accessibile a tutti”, andata in onda nella trasmissione “Matrix”, di Canale 5.
Subito dopo la laurea, Luciana Coluccello ha svolto due stage fondamentali: presso il celebre programma “Report”, di Rai3 e, successivamente, nella redazione Esteri del “Corriere della Sera”. Ha lavorato nel 2015 a Tv2000 nel programma “Beati Voi”, condotto da Alessandro Sortino, e successivamente è diventata un’inviata de “La Gabbia Open”, su La7. Nel 2018 è passata a Mediaset (“Matrix” e “Diritto e Rovescio”) e nel 2020 al programma televisivo di Rai1 “Oggi è un altro giorno”, sempre come inviata. Seguendo il suo sogno di lavorare in contesti di crisi e teatri di guerra, negli anni, durante le pause dal lavoro redazionale ha passato lunghi periodi in Marocco, Libano, Israele e Palestina, fino a decidere di lavorare come freelance nell’agosto 2021, quando l’Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani. Da quasi un anno ormai ci racconta la guerra in Ucraina, dove opera tuttora. I suoi reportage, per la loro qualità e il loro valore giornalistico, vanno in onda su LA7 in programmi di grande ascolto come “Piazzapulita”. Quella di Luciana è una bella storia di successo che può ispirare tanti giovani a non arrendersi e ad inseguire le proprie passioni. Ne abbiamo parlato con lei al telefono mentre era a Kyiv, in procinto di partire per il fronte.
Come e perché hai deciso di fare la giornalista?
Perché sono una persona molto curiosa, che si fa e si è sempre fatta mille domande. Fondamentalmente, per me il giornalismo è ricerca continua, spinta costante verso la conoscenza e l’approfondimento. Interesse verso ciò che non conosco. Se sei un giornalista, infatti, non smetti (o non dovresti smettere) mai di studiare. Oggi, con maggiore consapevolezza, però, posso dire che forse la scelta di fare questo mestiere è legata anche al non saper stare ferma. Al voler essere sempre in movimento. Al bisogno di interfacciarmi con altri mondi e altre culture. All’eterna necessità di esplorare.
C’è stato un momento in cui hai pensato “Forse il giornalismo è davvero il mio mestiere”?
Si. Durante l’Erasmus in Spagna, quando ho studiato nella facoltà di “Comunicación y Periodismo” di Salamanca. Lì il corso di giornalismo radiofonico si svolgeva per un terzo in classe e per due terzi in una vera e propria radio. Mi sono subito resa conto di essere portata per questo mestiere, perché mi veniva tutto molto naturale.
Come è maturata la scelta della Luiss?
Avevo sentito parlare bene della facoltà di Scienze Politiche, che era l’ambito nel quale volevo approfondire i miei studi e specializzarmi. La scoperta di Radio Luiss, poi, devo dire che ha rafforzato la mia scelta. Da quando ho messo piede in Viale Romania, e fino alla laurea, Radio Luiss è stata il mio luogo del cuore. Ho ideato e condotto programmi insieme ad altri colleghi e, a pensarci bene, la mia prima esperienza giornalistica in ambito Esteri è stata proprio una trasmissione creata con un altro collega appassionato come me di Studi Strategici. Si chiamava “Voci dal mondo”.
Cosa ti ha lasciato l’esperienza maturata in Luiss?
Mi ha dato quelle basi di conoscenza e sapere che ti rendono una persona più sicura di te, più consapevole. Ho avuto professori validi, che ho stimato e che hanno saputo incoraggiare la voglia di approfondire una disciplina che ti appassiona particolarmente, ad esempio, anche fuori dall’orario delle lezioni. Insomma, la Luiss mi ha insegnato anche a rafforzare ambizioni e determinazione nel raggiungere gli obiettivi. Fondamentali sono stati i momenti di lavoro di gruppo che, da un lato, stimolavano il senso e le potenzialità del lavorare in squadra. E, dall’altro, quella sana competizione con i colleghi “avversari”.
Come si è sviluppato il tuo percorso nel giornalismo?
Dopo uno stage postlaurea nella redazione di “E – Il Mensile”, la testata di Emergency, ho svolto un altro stage nella redazione Esteri del Corriere della Sera. Ci sono arrivata perché la mia tesi di laurea in Studi Strategici aveva ottenuto il premio internazionale di giornalismo “Maria Grazia Cutuli”. Nel 2015, invece, è arrivato il primo contratto televisivo. Da quel momento, non ho più lasciato la televisione: mi ha insegnato la forza della sintesi, e la potenza di un buon racconto per immagini. Ma soprattutto mi ha dato gli strumenti necessari per poter lavorare bene oggi anche fuori da una redazione. Fino al 2021, tra Tv2000, Mediaset, LA7 e Rai1, mi sono occupata di tematiche sociali ed economiche, immigrazione e, in generale, di cronache italiane. La passione vera però sono sempre stati gli Esteri… In effetti, è una passione che nasce proprio in Luiss, durante il corso di Studi Strategici tenuto allora da Lucio Caracciolo, direttore di Limes. In particolare, mi sono appassionata all’Afghanistan e alle vicende belliche legate a quel Paese, tanto da continuare a studiarlo e seguirne gli sviluppi sul campo anche dopo la laurea, quando lavoravo già in televisione e mi occupavo di tutt’altro. Per anni, mi sono ritrovata diverse volte a organizzare la partenza per quel teatro, e poi a dover rimandare per qualche motivo. Fino al 2021, quando ho deciso di lavorare da freelance.
E cosa è successo?
Ho partecipato a un training sul lavoro del giornalista in contesti di crisi per avere delle basi su protezioni balistiche adeguate, medicina tattica, primo soccorso e molto altro. E poi sono partita nell’autunno del 2021 per raccontare l’Afghanistan che tornava sotto il regime talebano. La crisi umanitaria, la condizione delle donne, le mille contraddizioni di un Paese che l’Occidente ha di fatto abbandonato dopo vent’anni di guerra sul territorio. Da quel momento, non mi sono più fermata perché il 24 febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina e, dopo aver chiuso un reportage sulla minaccia Isis in Afghanistan per Sky TG24, sono partita subito per il fronte. Era Marzo 2022 e a Kharkiv, città dell’est ucraino a 40 chilometri dalla Russia costantemente sotto assedio, i giornalisti da tutto il mondo si contavano sulle dita di una mano. E molto spesso chi veniva stava nella città un giorno e poi tornava a fare base in altre città più sicure. Io invece ho scelto di stabilirmi in un bunker di Kharkiv. Ci sono rimasta una ventina di giorni, e in quel periodo ho avuto proposte di collaborazione da molte testate giornalistiche e redazioni televisive, persino dalla CNN. Alla fine, però, ho scelto di lavorare stabilmente e quasi in esclusiva per Piazzapulita, di La7, perché è la trasmissione giornalistica che ha sempre saputo valorizzare meglio i miei racconti.
C’è qualcosa in particolare che ti ha spinto a scegliere il mestiere di reporter di guerra?
Le guerra, i conflitti, per qualche motivo hanno sempre stimolato la mia curiosità. Ma, in realtà, io non mi definirei reporter di guerra solo perché nell’ultimo anno ho fatto principalmente questo. Primo, perché non mi piace darmi troppi confini. E secondo perché in generale mi interessa raccontare le crisi di qualsiasi natura: una popolazione costretta ad emigrare a causa degli effetti drammatici del cambiamento climatico, ad esempio. Ma, senza andare troppo lontano, anche le periferie dimenticate del nostro Paese. Però ammetto che il racconto della vita in un Paese in guerra mi anima particolarmente, anche dal punto di vista umano. Mi interessa scavare nell’umanità del singolo in un momento estremo e crudele come forse solo la guerra può essere. Il confronto continuo con l’idea della fine implica una profondità d’animo che nella vita di tutti i giorni si fa fatica e trovare. E, infatti, quando si torna dal fronte certe volte sembra di vivere in una realtà sbiadita, rispetto a quella che appena vissuta, che ti porti dentro. Come diceva Oriana Fallaci, in guerra sei sempre sul palcoscenico, non sei mai spettatore perché anche se sei sulla terrazza di un hotel a bere un tè potrebbe arrivare una granata. Anche da un punto di vista più strettamente giornalistico, in guerra non c’è bisogno di andare a caccia di storie: accade tutto sotto i tuoi occhi.
C’è stato un momento in cui hai pensato di non essere all’altezza?
Sono molto esigente con me stessa, e anche quando ricevo apprezzamenti penso sempre che avrei potuto fare meglio. Ma, onestamente, devo dire che da quando ho scelto la strada dell’essere freelance non mi è mai capitato di non sentirmi all’altezza. Perché sono sempre io a scegliere dove andare, cosa raccontare e con quali tempi, soprattutto. Tenendo sempre a mente, però, quello che ho detto prima. Ovvero che essere freelance, per quella che è la mia formazione, non significa lavorare da soli. Il nostro, soprattutto quello televisivo, è sempre un lavoro di squadra. Per cui io, ad esempio, all’autore e al montatore che confezionano il mio racconto dò delle indicazioni. Ma se poi vedo che hanno eliminato una data scena perché ritenuta superflua o ridondante, so che nella maggior parte dei casi hanno fatto bene a farlo. Mi fido molto di chi lavora con me perché sono loro i primi spettatori di quel reportage.
Paradossalmente, mi è capitato di più quando lavoravo in redazione e venivo inviata, di non sentirmi all’altezza, alle volte. Magari perché mi si chiedeva di raccontare una storia che non sentivo nelle mie corde. O magari – qualche volta purtroppo capita – perché non vieni inviato a raccontare quello che trovi – il giornalismo dovrebbe essere questo. Ma a cercare una storia che l’autore ha già in testa. I famosi pezzi a tesi che non ho mai saputo fare e dai quali sono sempre scappata.
C’è qualcosa che ti rende orgogliosa nel tuo ambito professionale?
Quando intervisto qualcuno e provo a raccontare la sua storia, cerco sempre di essere molto cauta e tengo sempre a mente che quella persona si sta fidando di me. Mi sta consegnando aspetti importanti, talvolta delicati della sua vita, e io come giornalista ho una responsabilità. Questa responsabilità è ciò che non dimentico mai. Poi, credo sia necessaria nel nostro lavoro anche una buona dose di empatia. A volte bisogna sapere entrare in punta di piedi nella vita delle persone.
Quali sono le caratteristiche per te fondamentali nel fare il reporter di guerra?
Lucidità, empatia ma, al contempo, capacità di mantenere sempre la giusta distanza, perché siamo cronisti chiamati a raccontare quell’evento, non attivisti. E poi tanto studio, perché è di fondamentale importanza conoscere il contesto storico e culturale in cui stiamo andando a lavorare. L’approssimazione non è concessa. Bisogna dare il giusto peso ad ogni parola utilizzata.
C’è qualcosa a cui hai rinunciato per il tuo lavoro?
Come in tanti lavori, anche questo comporta dei compromessi e delle rinunce. Sicuramente capita spesso di passare molto tempo lontani dalla famiglia e dal proprio partner, e questo non è sempre semplice. Però devo ammettere di essere fortunata: mi sono sempre circondata di persone che hanno compreso la mia passione, e non mi hanno mai fatto pesare la mia scelta. A volte ho qualche senso di colpa, quando manco per tanto tempo. Però poi mi tranquillizza sapere che torno sempre da chi sa gioire insieme a me delle immense soddisfazioni che mi dà poter fare il mestiere che sognavo.
Qual è l’esperienza più bella vissuta in Ucraina?
Ho vissuto per due settimane in un bunker sotterraneo con dei volontari ucraini. Forse non la definirei propriamente un’esperienza bella. Però è stata forse la più importante. Molto intensa, a tratti faticosa. Ma interessante perché mi ha dato molti strumenti per capire subito il Paese in guerra che mi accingevo a raccontare. Ci sono elementi che nessun libro ti potrà mai trasmettere, e che puoi capire solo stando sul posto e osservando.
Quale il momento più brutto?
La strage della stazione di Kramatorsk, l’8 aprile 2022. Per me è stato quello il primo vero incontro con la guerra in tutta la sua atrocità. Mi ritengo anche io una sopravvissuta in qualche modo: solo per pochi minuti non mi sono trovata nella parte di stazione che poi è stata l’epicentro della strage. È un’esperienza che ha avuto un forte impatto su di me, e di cui ancora faccio fatica a parlare nei dettagli. Sono riuscita a farlo solo in un libro, che è in uscita in occasione del primo anniversario della guerra con Piemme, gruppo Mondadori.
Cosa rende secondo te la guerra in Ucraina diversa dalle altre?
In fondo le guerre, e soprattutto le conseguenze generate dalle guerre in termini di distruzione, popolazione costretta a scappare, famiglie che si dividono e padri che restano a combattere, sono tutte molto simili tra di loro. Questa guerra è solo più vicina a noi. E c’è sicuramente una minaccia percepita in misura maggiore visto il coinvolgimento diretto, sul territorio europeo, di una potenza nucleare che ha invaso un altro Stato sovrano.
C’è un giornalista in particolare a cui ti ispiri e perché?
In ambito televisivo, è stata per diversi anni un riferimento Milena Gabanelli. Mi ha insegnato il rigore giornalistico ma, al tempo stesso, la necessità di imparare a trasmettere inchieste e concetti complessi in modo chiaro, efficace e comprensibile a tutti. Per quanto riguarda la scrittura, invece, ho sempre amato la penna di Oriana Fallaci e Ryszard Kapuscinski.
Che consiglio daresti a chi vuole intraprendere la tua strada?
Crederci e non lasciarsi abbattere da chi dice che questo mestiere è morto. È l’esatto opposto, e ne è una dimostrazione il fatto che nascono strumenti sempre nuovi – come ad esempio i podcast – per raccontare il mondo. Chi ci crede davvero può farcela, a patto di percorrere un percorso di formazione rigoroso che può essere in una redazione, se si ha la fortuna di avere un contratto da praticante, o in una scuola giornalismo. Giornalisti non ci si improvvisa. In un mestiere in cui spesso si pecca di egocentrismo, bisogna ricordare sempre che – qualsiasi mezzo utilizziamo, che sia la televisione, la radio, o una piattaforma sui social – il focus non siamo noi, ma la storia che stiamo raccontando. Caricare un racconto di inutile enfasi o lanciarsi in opinioni non richieste va a discapito di quella credibilità che per un giornalista è fondamentale.
Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?
Sento di essere sulla strada giusta, e quindi per il momento l’obiettivo a breve termine è non perdere la bussola. Gli obiettivi a medio e lungo termine, per il momento, li tengo per me (ride).
Intervista a cura di Emidio Piccione, giornalista e comunicatore.